La sposa liberata - Abraham B. Yehoshua

La nostra recensione

Un libro complicato sia per l’intreccio di molte storie parallele sia per le continue divagazioni con ulteriori racconti. Il romanzo si apre con la ricerca da parte di un padre delle ragioni che hanno portato alla rottura il matrimonio del figlio, che ancora soffre a causa del divorzio. Ma a questa narrazione se ne aggiungono via via molte altre in quello che a qualcuno è sembrato un puzzle e ad altri invece una serie di storie a raggiera a partire da un perno centrale. Il romanzo offra al lettore la posizione politica dello scrittore. Di origine sefardita, docente di letteratura ebrea e comparata all’Università di Haifa, Yehoshua ha molti tratti in comune con Rivlin. L’apertura mentale del protagonista e le sua vicinanza emotiva agli arabi rispecchiano le idee dello scrittore che fu un attivista nel Movimento per la Pace Israeliano. Il filo conduttore del romanzo sembra essere la conoscenza del mondo arabo e della sua cultura al fine di una convivenza pacifica, ma in tutto il libro ricorrono e occupano un ruolo importante le figure di spose oppresse. Oppressa dal segreto di famiglia è Galia, mentre Hana Tedeschi è messa in ombra e oppressa dall’illustre marito; Samaher viene data in sposa ad un uomo che non ama, invece la vedova del giovane ricercatore Swissa, ucciso in un attentato, subisce il fondamentalismo religioso del suocero. La stessa Haghit è un po’ vittima di un marito pedante e ficcanaso. Il movimento frenetico di Rivlin che si sposta in continuazione da Haifa a Gerusalemme, passando varie volte per l’aeroporto, sconfinando di continuo nei territori occupati, costringe il lettore a fare i conti con una irrequietezza di fondo, con la ricerca di risposte, di soluzioni, ma soprattutto con la necessità di comprendere i fatti, gli avvenimenti e le cause. E non solo del divorzio di Ofer ma di una situazione politica che si è fossilizzata in posizioni estreme e distanti tra loro. La scrittura di Yehoshua è descrittiva, particolareggiata e capace di un’indagine introspettiva effettuata con grande maestria. Sicuramente una lettura impegnativa per chi non conosce a fondo la cultura ebraica e quella araba e le dinamiche che caratterizzano quei territori in perenne conflitto. Le relazioni sono però centrali in quella che risulta essere una trama che non segue un filo logico, ma scorre come la vita in modo imprevedibile e disordinato. Il matrimonio viene analizzato in tutte le sue sfaccettature e complessità così come sono abilmente scandagliati i legami che Ravlin tesse con Samaher con Rashed e con Fuad. Il mondo arabo si relaziona con il professore con molta deferenza e Ravlin viene spesso pregato di intercedere, di trovare un modo, di aiutare chi sembra essere in una posizione subalterna non solo per il suo ruolo o per il mestiere che fa, ma anche per la sua ubicazione al di fuori dello stato di Israele. Quello che ci ha colpito è stato appurare come lo scrittore israeliano metta in luce gli effetti negativi di una supremazia su una terra in cui la convivenza è resa difficile anche dal mancato riconoscimento di un popolo pre-esistente su quei territori. Yehoshua osserva con gli occhi degli arabi la prevaricazione di una cultura sull’altra, ma anche, da ebreo, sottolinea la struttura gerarchica della società israeliana, ben rappresentata dall’edificio dell’università in cui Ravlin insegna e che colloca i vari docenti ai diversi piani a seconda della loro posizione e autorità all’interno dell’ateneo. L’impossibilità di una convivenza, con gli attentati e i morti che si susseguono da entrambe le parti, può venir superata grazie alla cultura e alla letteratura, ossia attraverso la conoscenza e il rispetto per l’altro. Questo sembra essere il nocciolo del romanzo che termina senza una vera conclusione: tutto è in divenire, in movimento, come se la vita non potesse mai fermarsi e permettersi una sosta.